“Il perdono verso chi ha scelto di trasformarsi in nemico è la reazione di Dio a tutto ciò che sembra capace di ferire nell’intimo l’indissolubilità dell’amore.”

La brevissima nota con cui si apre il Vangelo odierno può essere assunta come il colore di fondo di tutta la tela di questa liturgia domenicale che ci prepara a ricevere – senza darlo per scontato – il frutto della Pasqua, lo Spirito del Risorto: «Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo] …» (Gv 13,31).

Il monologo di Gesù, che consegna ai suoi discepoli la verità della sua coscienza e il testamento della sua volontà, si svolge in un contesto che potremmo definire per nulla favorevole.
Non solo le autorità religiose sembrano non aver saputo riconoscere la verità del suo Vangelo. Anche i discepoli — di cui Giuda è drammatica figura rappresentativa — attestano un mistero di paura così denso da impedire alla luce vera di Cristo di risplendere per essere anche liberamente accolta.

Eppure, proprio mentre il buio sembra inghiottire ogni speranza, il Signore Gesù è capace di rappresentare davanti agli occhi dei suoi amici «un cielo nuovo e una terra nuova» (Ap 21,1), rivelando la profondità di un pensiero che può abitare solo un cuore immerso nell’amore del Padre: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui.

Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito» (Gv 13,31-32).
La «gloria», nella semantica ebraica, è il peso specifico di una realtà, la densità di importanza che un fatto o una persona assumono all’interno del disegno di Dio.

Dicendo queste parole, Gesù annuncia che il tradimento di Giuda non è da intendersi solo come una sconfitta, ma anche come l’occasione attraverso cui la sua vita può finalmente manifestare tutta l’incandescenza di un rapporto d’amore con il Padre.

Il segno di questa fiducia estrema, che Gesù è in grado di vivere nonostante le apparenze, è attestato dalla capacità di raccontare non solo il dolore del 1distacco, ma anche il desiderio che la vita possa continuare a dire la verità di un amore più forte e ostinato di ogni sconfitta: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri.

Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Il perdono verso chi ha scelto di trasformarsi in nemico è la paziente risposta — sempre nuova e inattesa — alla possibilità del tradimento, la reazione di Dio a tutto ciò che sembra capace di ferire nell’intimo l’indissolubilità dell’amore.

Il comandamento di Gesù, tuttavia, non è da intendersi nuovo tanto nel contenuto, quanto nel rispetto della circostanza in cui viene consegnato ai discepoli.
Se il Dio fatto uomo è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su tutte le creature» (salmo responsoriale), allora noi non solo possiamo, ma anche «dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (At 14,22), perché la sofferenza può finalmente essere interpretata e assunta come il sigillo sulla nostra libertà, interpellata a dichiarare se siamo disposti a pagare — o a negare — il prezzo dei nostri più autentici desideri.

Del resto, solo grandi desideri, scaturiti nella gioia e temprati nella sofferenza, possono realmente muovere la storia e contribuire a fare «nuove tutte le cose» (Ap 21,5).

Potremmo dire che le conseguenze della Pasqua di Cristo nella nostra umanità coincidono con la possibilità di non giudicare più le circostanze in base a quanto attraverso di esse ci viene donato, ma in relazione a quello che esse ci consentono di offrire, glorificando Dio nella libertà e persino nell’inconsapevolezza.

In attesa di quel giorno in cui Dio sarà la visibile e tangibile circostanza in cui la vita sarà possibile e piena per tutti e per sempre: 2«Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.

E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3-4).

(Letture: At 14,21b-27; Dal Sal 144 (145); Ap 21,1-5a; Gv 13,31-33a.34-35)